Pillole di psicologia: “Sbagliando s’impara”

Pillole di psicologia

 

“Sbagliando s’impara”

 

“La storia della vita sulla Terra, lo sappiamo, è la storia dell’adattamento all’ambiente. Attraverso una serie di mutazioni e di selezioni, le specie animali e vegetali si sono continuamente adattate all’ambiente in trasformazione, trovando ogni volta le soluzioni giuste per sopravvivere nei climi più diversi. Chi non si adattava si estingueva” Piero Angela              

Renè Magritte, La corde sensible (La corda sensibile), 1960.

 

Tutti conosciamo il detto “sbagliando s’impara” e gli studi psicologici ci confermano che questo non è solo un detto, è proprio un modo di funzionare della mente, anche se, come la maggior parte delle cose non si ottiene con uno schiocco di dita, ma richiede impegno, l’impegno delle proprie risorse interiori.

 

Di fronte alle esperienze avverse delle vita non è così difficile avvertire un vissuto spiacevole e sofferente. Per esempio, un lutto, un licenziamento, un grave incidente, una separazione, un tradimento, una bocciatura, un problema di salute, un debito economico, e tanti altri eventi simili, sono esperienze che fanno parte integrante della vita, e a un certo punto arriva un momento in cui se ne fa la conoscenza, ahimè!. E ciò che sopraggiunge in prima battuta è quanto segue: un forte impatto emotivo, un senso di insicurezza e incertezza, una strana confusione e disorientamento, la sensazione di essere vulnerabili. Tutto questo, col passare del tempo, tende poi ad attenuarsi, poiché lentamente si fa familiarità con l’accaduto, e anche se si continua a non apprezzarlo come sin dall’inizio, si riesce a farsene una ragione, ad accettarlo e a farci l’abitudine:  si riesce a trovare un modo per adattarsi al brutto accadimento, e ancora di più, impegnandosi, si riesce persino a trarne qualcosa di buono, un prezioso insegnamento di vita.

 

Peter M. Madsen e Vinit Desai nei loro studi hanno evidenziato che la mente conserva maggiormente le lezioni che provengono dai fallimenti che non quelle legate ai successi (Madsen P. M., Desai V., 2010). E tenendo conto del fatto che la mente basa il suo operato sulle esperienze che ricorda, se conserva più intensamente i ricordi di esperienze fallimentari, ciò vuol dire che la mente ci permette di imparare e crescere fondandosi sulle lezioni impartite dagli insuccessi e dai fallimenti, e quindi, “sbagliando s’impara”. Ma c’è un “ma”, poiché gli insuccessi diventano ottimi insegnanti di vita solo se gestiti nella maniera corretta, altrimenti possono diventare pugnalate che minano le proprie emozioni, i propri pensieri, la propria autostima, la propria sicurezza e la propria personalità.

 

Una brutta esperienza può essere più cose: un duro colpo che schiaccia e mette ko, quando non si riesce a trovare un buon adattamento, oppure un’opportunità per crescere e rinforzarsi, quando si riesce a sviluppare nuove risorse e un buon adattamento.

La domanda è questa: “Che cosa favorisce il processo di adattamento?”.

La risposta è questa: “L’adattamento è facilitato da alcune delle nostre più preziose risorse: la resilienza e le strategie di coping”.

 

In psicologia per adattamento s’intende quel processo attraverso il quale la persona si adegua all’ambiente, sia esso fisico o sociale. E si può sviluppare un “adattamento passivo”, modificando i propri schemi di comportamento in funzione dell’ambiente, oppure un “adattamento attivo” trasformando l’ambiente stesso in risposta ai propri bisogni. E seppur possano sembrare due modalità di adattamento alternative, in verità sono strettamente “interdipendenti” e “integrate”.

 

Lo psicologo svizzero Jean Piaget (2000; 2013) propone una teoria dell’adattamento che in psicologia è largamente riconosciuta e accettata. Per Piaget alla base dell’adattamento esistono due processi cognitivi fondamentali: assimilazione e accomodamento.

 

Per assimilazione s’intende l’introiezione delle informazioni provenienti dall’ambiente filtrate e mediate dalle le proprie strutture cognitive. È un adeguamento dell’ambiente alle strutture mentali che si hanno a disposizione. Del resto qualsiasi esperienza è filtrata e mediata dalle strutture cognitive che elaborano le informazioni in ingresso, e ciò implica di conseguenza che la nostra visione del mondo è fortemente influenzata dai nostri schemi mentali, i nostri valori, le nostre credenze, i nostri apprendimenti; in altre parole, da noi stessi. Per esempio, un bambino dell’età di circa un anno, di fronte ad uno spicchio di limone sicuramente tenderà a ripetere i comportamenti che è abituato a mettere in atto usualmente, ovvero utilizzerà gli schemi mentali che possiede in quel momento per rispondere agli stimoli ambientali, che in questo caso appunto sono l’esplorazione del mondo attraverso la bocca.

 

Per accomodamento, invece, s’intende la modificazione delle strutture cognitive in risposta alle interazioni con l’ambiente. L’individuo adegua le sue funzioni cognitivi alle nuove esperienze. Questo meccanismo sottolinea quanto sia di fondamentale importanza la stimolazione ambientale, perché è proprio nella risposta all’ambiente che si sviluppa l’accomodamento e quindi di conseguenza l’adattamento. Tornando all’esempio precedente, il bambino che afferra uno spicchio di limone e lo mette in bocca, inizialmente metterà in atto i suoi schemi abituali, ma poi, accorgendosi che lo spicchio di limone ha delle caratteristiche diverse rispetto alle altre cose che mette in bocca (è intensamente agro), farà un’esperienza nuova che gli permetterà di rivedere i suoi schemi cognitivi, di riorganizzarli e di accomodarli alla nuova situazione, e quindi svilupperà nuove competenze. L’accomodamento quindi si verifica quando nuove esperienze arricchiscono la propria conoscenza del mondo, ampliando gli schemi cognitivi e quindi il repertorio delle proprie abilità.

 

Quindi alla base dell’adattamento ci sono questi due processi, l’assimilazione e l’accomodamento, che permettono agli schemi mentali sia di arricchirsi introiettando le informazioni provenienti dall’ambiente sia di modificarsi continuamente per far fronte alle nuove esperienze. L’adattamento è quindi un equilibrio in continuo aggiustamento tra l’individuo e l’ambiente, un continuo scambio omeostatico.

 

Un mancato adattamento si chiama disadattamento, che non solo è fonte di disagio e sofferenza, ma che protratto nel tempo può trasformarsi in una vera e propria sofferenza psicologica. Ma niente paura! A questo disadattamento si può rimediare con un riadattamento, facendo seguire un nuovo adattamento al vecchio disadattamento.

 

Perché si sviluppi un buon adattamento è necessario fare leva sulle proprie migliori risorse: la resilienza e le strategie di coping.

 

Che cos’è la resilienza?

 

La parola resilienza deriva dal latino resilire (rimbalzare), ed è un termine utilizzato nella fisica per indicare la capacità dei materiali di mantenere la propria struttura, oppure di riacquisirla, dopo aver subito pressione, schiacciamento o deformazione. Quindi è la capacità dei materiali di resistere agli urti, verificando e testando la loro forza e duttilità. In psicologia la parola resilienza si riferisce alla capacità delle persone di affrontare eventi difficoltosi, stressanti o traumatici, senza esserne schiacciati o sopraffatti, bensì riuscendo a utilizzarli per rafforzarsi e per riorganizzare in meglio se stessi e la propria vita. Quindi è la capacità delle persone di resistere alle difficoltà, verificando e rafforzando le loro migliori risorse.

Le persone resilienti riescono a confrontarsi e ad affrontare le difficoltà in modo efficiente, senza lasciarsi indebolire, anzi, rafforzandosi e riuscendo a trarne un nuovo slancio per la propria vita, fino addirittura a diventare capaci di raggiungere traguardi molto importanti. Queste persone di solito si mostrano flessibili, creative, in grado di stabilire buone relazioni sociali e capaci di trarre buoni insegnamenti dalle loro ma anche dalle altrui esperienze.

Il bello della resilienza è che si tratta di una capacità che si può allenare e rafforzare, perché è una funzione psichica dinamica, si modifica nel tempo in risposta alle esperienze vissute, e soprattutto, in relazione agli schemi mentali che la sottendono.

 

Suzanne C. Kobasa (1979), negli anni ’70, nella sua tesi di dottorato sui fattori di protezione dallo stress lavorativo, svolta insieme al suo supervisore Salvatore R. Maddi, introduce il termine “hardiness” (robustezza), un termine strettamente correlato alla resilienza, e individua tre caratteristiche di personalità che rendono le persone più resilienti, più in grado di gestire e trarre del buono dalle avversità:

  • Impegno.
  • Controllo.
  • Gusto per le sfide.

 

Per impegno s’intende la capacità di coinvolgersi nelle attività da svolgere. Vuol dire essere attivi,  darsi da fare, non farsi spaventare dalla fatica, non arrendersi facilmente. Vuol dire essere concentrati, attenti e vigili ma non ansiosi, valutando gli sforzi e le difficoltà in maniera realistica. E perché si attivi l’impegno in una persona è indispensabile che ci siano degli obiettivi da raggiungere, obiettivi chiari e raggiungibili, obiettivi in cui credere e per i quali vale la pena di lottare.

Per controllo s’intende la convinzione di non essere in balia degli eventi, di poter gestire ciò che si fa e le iniziative che si prendono. Mantenere il controllo vuol dire essere pronti a modificare le strategie da adottare in relazione agli eventi, e quindi essere flessibili: essere in grado di intervenire tempestivamente se è questo che viene richiesto dalla situazione, oppure al contrario indietreggiare o aspettare, se invece è questo quello che serve. Quindi per mantenere il controllo è necessario essere flessibili e disposti a modificare le proprie strategie d’intervento.

Per gusto per le sfide s’intende la capacità di accogliere e accettare i cambiamenti. Vuol dire riuscire a vedere, e a concentrarsi, sugli aspetti positivi dei cambiamenti nonostante ci siano anche quelli negativi. Vuol dire andare oltre le difficoltà che s’incontrano nei cambiamenti per focalizzarsi sull’accrescimento e arricchimento che se ne potrà trarre. Per cui i cambiamenti piuttosto che essere considerati come difficoltà da evitare, vengono visti come delle stimolanti sfide da affrontare. Tutto ciò è possibile quando la persona utilizza e valorizza la propria apertura e flessibilità mentale.

Queste tre caratteristiche della personalità sono capacità delle quali si può prendere coscienza, e in questo modo è possibile allenarle e accrescerle per il proprio benessere psicologico.

 

Che cos’è il coping?

 

La parola coping è stata introdotta nella psicologia nel 1966 ad opera di Richard S. Lazarus nella sua opera “Psychological stress and the coping process”. In italiano viene comunemente tradotta con il termine “fronteggiamento”, “gestione attiva”, “risposta efficace” o “capacità di risolvere i problemi”. È un concetto strettamente connesso a quello di stress, infatti per coping s’intende “L’insieme degli sforzi cognitivi e comportamentali per trattare richieste specifiche interne o esterne (ed i conflitti tra esse) che sono valutate come eccessive ed eccedenti le risorse di una persona (Lazarus R. S. e Folkman S., 1984).

Il coping è connotato da due caratteristiche specifiche (ibidem):

  • È un processo dinamico, costituito dalle risposte reciproche che si scambiano tra loro ambiente e individuo influenzandosi a vicenda.
  • È un processo che comprende diverse azioni, sia cognitive che comportamentali, intenzionali e finalizzate a controllare gli effetti negativi dello stimolo stressante.

Richard S. Lazarus e Susan Folkman individuano due modalità diverse di coping in relazione alle funzioni specifiche che svolge (Lazarus R. S., 1991; Lazarus R. S. e Folkman S., 1984):

  1. Emotion-focused coping, che si riferisce alle azioni svolte per controllare le reazioni emotive causate dallo stimolo stressante. Per esempio: tentare di vedere il lato positivo, gradire la simpatia e la comprensione degli altri, cercare di mettere un po’ da parte la faccenda, cercare di non pensarci troppo, decidere che ci sono cose ben peggiori di cui preoccuparsi, concludere che non tutto il male viene per nuocere.
  2. Problem-focused coping, che si riferisce alle azioni volte a modificare o a risolvere lo stimolo che sta minacciando o danneggiando la persona. Per esempio: analizzare la situazione per trovare delle soluzioni, elaborare e seguire un piano di azione, sapere cosa fare e impegnarsi per appianare le cose, cercare di non agire di fretta e in modo impulsivo, chiedere consigli ai familiari o agli amici, rivolgersi a persone esperte.

 

Gregory K. Brown e Perry M. Nicassio (1987), in seguito agli studi di Lazarus, con il loro lavoro sulle strategie di coping dei pazienti con dolore cronico introducono la distinzione tra coping attivo e coping passivo, la cui differenza fondamentale sta nel fatto che la persona faccia affidamento alle propri risorse interne oppure a quelle esterne.

Le strategie attive di coping consistono nel tentativo di controllare il dolore oppure nel cercare di mantenere un buon livello funzionale nonostante il dolore. Per esempio: distraendosi, reinterpretando le sensazioni del dolore, dicendo a se stessi che si è in grado di controllare il dolore, pensando al dolore come se fosse un calore.

Le strategie passive di coping, invece, consistono nel delegare ad altri il controllo del proprio dolore, oppure nel permettere al dolore di contaminare negativamente le altre sfere della vita, e sono considerate un peggiore adattamento. Per esempio: mostrando reazioni di catastrofismo, assumendo farmaci, chiamando il medico, riducendo le attività sociali.

 

Moshe Zeidner e Donald Saklofske (1996), occupandosi di strategie adattive e disadattive, rilevano che le diverse strategie attive e passive interagiscono nel determinare buoni risultati. Secondo i due ricercatori, infatti, un buon adattamento dipenderà dall’interazione tra le diverse strategie di coping e lo stimolo stressante a cui vengono applicate. Per cui non esisterebbero stili di coping adattivi e disadattavi a priori, visto che quelli che lo sono in determinate situazioni non lo sono in altre, bensì esisterebbe un buon adattamento come risultato dell’utilizzo di strategie di coping diverse che di volta in volta vengono ritenute valide per fronteggiare lo stimolo stressante.

 

Quindi si può dire che l’elemento fondamentale affinché si possa sviluppare un buon adattamento agli eventi avversi sia la capacità di adoperare la propria flessibilità nell’utilizzo delle strategie di coping, senza irrigidirsi su un’unica strategia, bensì spronandosi a cambiarla qualora i suoi risultati siano insoddisfacenti e inefficaci.

 

La resilienza e le strategie di coping non sono caratteristiche presenti o assenti nelle persone, bensì sono il frutto di pensieri, comportamenti e azioni che tutti posso sviluppare e utilizzare nella propria vita. Ed essere persone resilienti ed avere buone strategie di coping, non vuol dire non incontrare difficoltà e non provare stress, e non vuol dire neanche essere infallibili, anzi al contrario, vuol dire sperimentare le difficoltà e lo stress, e vuol dire anche commettere errori, la differenza sta nel rendersi disponibili al cambiamento quando necessario, e nel pensare di potere sbagliare ma anche di poter aggiustare il tiro per fare meglio.

 

Ecco alcuni elementi che possono facilitare lo sviluppo e la crescita di alti livelli di resilienza e di buone strategie di coping:

  • Avere una visione positiva di se stessi, che comprenda la consapevolezza delle proprie abilità e dei propri punti di forza.
  • Pianificare la propria vita ponendosi obiettivi da raggiungere che siano chiari, realistici e raggiungibili, e soprattutto, permettendosi di raggiungerli facendo passi graduali.
  • Sviluppare buone capacità di problem solving che permettano di orientarsi nell’affrontare situazioni difficili.
  • Maturare buone capacità comunicative che permettano di creare buone relazioni interpersonali.
  • Raggiungere un buon controllo degli impulsi e delle emozioni.

 

Si può allora concludere che è sicuramente corretto dire che sbagliando s’impara, visto che la mente conserva e trattiene più gli insuccessi che i successi, tuttavia, perché si possa trarre un insegnamento da queste esperienze fallimentari è necessario permettersi di sviluppare un buon adattamento alle brutte esperienze, e quindi farsi il meraviglioso dono di allenare e utilizzare le proprie strategie di resilienza e di coping.

 

Bibliografia

Brown G. K., Nicassio P. M. (1987), Development of questionnaire for the assessment of active and passive coping strategies in chronic pain patients, Pain, 31, 53-64.

Lazarus R. S., Folkman S. (1984), Stress, appraisal and coping, Springer, New York.

Lazarus R. S. (1991), Emotion and adaptation, Pxfford University Press, London.

Madsen P. M., Desai V. (2010), Failing to learn? The effects of failure and success on organization learning in the global orbital launch vehicle industry, in The Academy of Management Journal, Vol. 53, No. 3, pp. 451-476.

Piaget, J. (2000), Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Einaudi, Torino.

Piaget, J. (2013), La rappresentazione del mondo del fanciullo, Bollati Boringhieri, Torino.

Kobasa S. C. (1979), Stressful life events, personality and health: An inquiry into hardiness, in Journal of personality and Social Psychology, 37 (1), 1-11.

Zeidner M., Saklofske D. (1996), Adptive and maladaptive coping. In M. Zeidner, N. S. Endler (Eds.), Handbook of coping. Theory, research, applications, 505-531. John Wiley and Sons, Inc.

 

Fonte delle immagini

Immagine nell’articolo. Web del 01 Settembre 2018. Fonte: https://piantatastorta.files.wordpress.com/2012/05/la-corde-sensible.jpg